FORLI’. Che nottte, quella notte. Sono passati esattamente 30 anni da quel 24 maggio del 1990 che per gli appassionati forlivesi di pallacanestro resterà per sempre legato al concetto di “impresa”. Lo furono sia quell’autoritaria vittoria a Fabriano 79-92 che l’esito che ne conseguì: Jolly Colombani promossa in serie A1. Un traguardo sensazionale, soprattutto se la mente corre a come si sviluppò quell’annata. Tante aspettative alla vigiliia, un centro ameriicano di nome Mike Smrek visto decine di volte in tv con la magla dei Los Angeles Lakers dimostratosi un flop totale e una stagione travagliatissima e deludente chiusa dopo 30 incontri di regular season con un record negativo (14 vittorie e 16 ko), una sconfitta casaliinga tra i fischi subita per mano di Udine all’ultima giornata e un nono posto che significava play-out acciuffati per i capelli e speranze rasoterra di vederli coronati in modo vincente.
Se non che in quella squadra allenata da Virginio Bernardi c’erano fior di giocatori dal punto di vista tecnico e della personalità e con un Dean Garrett a spazzolare i tabelloni con John Fox e una pattuglia italiana del calibro di quella formata da Fumagalli, Mentasti, Bonamico, Giarletti e Pezzin, d’improvviso si accese la scintilla che divampò in fuoco. E battendo Fabriano alla penultima giornata, arrivò la promozione più inattesa della storia del basket forlivese.
Aspettate… Avete letto i nomi e vi siete accorti che ne manca uno, vero? Esatto, manca quello di Davide Ceccarelli, il “Leone di Poggibonsi”. Lo abbiamo voluto sentire direttamente facendogli compagnia mentre viaggiava in autostrada perché lui, col suo immortale 6/6 da tre a Fabriano, fu il Re di quella notte indimenticabile di 30 anni fa. E poi, chi scrive, faceva partte di un gruppo di tifosi… Quali? Quelli del “Cecca the Power”, ovviamente!
Allora con Davide abbiamo voluto fare un gioco. Sei domande. Una per ogni tripla scoccata e imbucata quella notte a Fabriano.
Davide, cosa ha rappresentato per te, come atleta e come uomo, quella promozione ottenuta nel 1990?
«E’ stata la sintesi perfetta di tutti i percorsi, professionali e umani, della mia vita. Avevo 29 anni, ero nel pieno della mia maturità psicofisica, all’apice di una crescita iniziata quando Cesare Pancotto mi scelse peer la prima volta per la sua Porto San Giorgio e una seconda per avermi con sè anche a Forlì. Come me, tanti altri miei compagni erano nelle condizioni ideali per unire i rispettivi percorsi, metterli a sintesi tra loro e farli confluire in un’unità di intenti che produsse quel risultato dopo una stagione sulle montagne russe».
E infatti arrivaste ai play-out contro squadre di A1 come Fortitudo e Firenze e di A2 decisamente meglio classificate come Livorno, Fabriano e Pistoia: cosa scattò in voi?
«Quando capimmo che la serie A1 diretta non sarebbe potuta arrivare pur avendone le potenzialità come squadra, Virginio Bernardi fece decantare la situazione, la società ebbe comunque fiducia nel suo e nel nostro lavoro e tutti, staff tecnico e atletico compresi, iniziammo a ragionare sui play-out e a finalizzare la preparazione alle 10 gare che sarebbero arrivate rimettendo tutti nelle stesse condizioni di partenza. Poi il calendario ci mise lo zampino perché alla prima giornata arrivò a Forlì la Fortitudo Bologna. Cavolo, subito il derby! Dai fischi della domenica prima si passò immediatamente a un palazzetto stracolmo, con 5mila persone tutte per noi. Ci guardammo in faccia e ci dicemmo che eravamo noi a doverle rappresentare in campo. Vincemmo quella gara sospinti da una carica interna ed esterna, fenomenale. Prendemmo subito fiducia e il resto venne di conseguenza. In pratica andammo in trance agonistica».
Quella che ti animò anche a Fabriano. Cosa ti ricordi di quella notte e qual è il ricordo più bello al di là di quella notte?
«Ero in trance, appunto. Tiravo sapendo dentro di me che avrei realizzato. Una volta non ho neppure guardato il canestro dal tanto che ero sicuro di me stesso. Tutti, però, eravamo in quella condizione: giocatori, società, forlivesi a Fabriano, forlivesi a casa che ci assalirono di gioia a notte fonda al casello autostradale. A parte quella notte, devo fare un omaggio a Virginio Bernardi. Lui sapeva di dovere gestire contemporaneamente una città che vive di basket, i giornalisti, una società nella quale comandava un triumvirato e una squadra piena di personalità importanti. Tra queste c’era anche la mia e io che sono un agonista e che mi sentivo il beniamino dei tifosi, mi sono anche incazzato più volte con lui ritenendo di meritare più spazio in campo senza dovere partire dalla panchina. E invece le sue scelte mi portarono a tirare fuori il meglio di me stesso e a darlo in campo. Per questo lo devo ancora oggi ringraziare».
Ceccarelli, però, non è stato l’eroe di una stagione. A Forlì hai giocato dal 1987 al 1993. Cosa ha rappresentato e rappresenta ancora oggi la città per te?
«Forlì è un paesone che, se sei uno sportivo e hai la fortuna di farti adottare dai tifosi, ti porta sempre su un piedistallo. Io arrivai da fresco sposo e giovane scavezzacollo e vi diventai uomo. E’ qui che sono nati i miei figli, è qui che mi sono fortificato come giocatore e come persona ricevendo tanto e sapendo che, proprio per questo, avrei dovuto dare tanto in campo. Poi io ero uno che la città la viveva, anche di notte. Mi piaceva eccome farlo. Amavo andare in pizzeria, incontrare i tifosi, essere anche al centro dell’attenzione. Mi piaceva tremendamente questo ruolo».
Davide Ceccarelli oggi è ancora “Leone”?
«E’ uno che guarda sempre avanti, ma che vive ancora su quanto ha seminato a Forlì. Certo, ho fatto di tutto, ho scritto poesie, racconti e libri, ma la mia attività di consulente finanziario è nata proprio nella mia esperienza forlivese quando conobbi Silvano Dal Seno e Gastone Gattelli che mi iniziarono a questa attività. Mi piaceva, si addiceva alla mia personalità e con le esperienze che ho fatto anche con la Giba ho messo tutto a frutto nel lavoro che continuo a svolgere. La mia prima Partita Iva l’ho aperta proprio a Forlì, guardacaso nel 1990. E comunque chissà quali altre sfide avrò ancora davanti. Ben vengano, sono pronto a viverle da persona positiva e serena. Pensa che sono anche diventato buddista, come Roby Baggio».
E nella tua vita, 30 anni dopo, il basket che ruolo ha?
«Lo ha ancora. Onestamente guardo poca pallacanestro a parte l’Eurolega che mi piace. La Nba proprio no, invece. Però 10 anni fa ho fondato assieme ad altri ex giocatori come Rudy Valenti, Trisciani, Montaguti, una società che si chiama “PFM”. E’ un acronimo che unisce i nomi di Porto San Giorgio, Fermo e Montegranaro. Siamo in 15, giochiamo a basket organizzando eventi, esclusivamente a scopo benefico cercando di sostenere progetti e cause in cui crediamo. Poi nel mio piccolo ho anche dato una mano come sponsor alle realtà cestistiche del territorio».
Le 6 domande per omaggiare le 6 triple, sono finite, ma ce ne teniamo una “extra”: la domanda promozione. Cosa augura Davide Ceccarelli a Forlì e ai forlivesi?
«Un’occhiata a Forlì e ai suoi risultati cerco di darla sempre e quando in autostrada passo vicino al casello, decido spesso di uscire per un attimo a Forlì, giusto per riassaporare in me le sensazioni della festa al casello del 1990 e rivedere alcuni posti a me molto cari, situati vicino all’uscita dell’A14. Auguro solo una cosa, ossia che possa ricrearsi come ai miei tempi un progetto basato sui valori e sui rapporti umani. Quella Libertas li aveva al centro, era una società di grandi persone e furono le fondamenta di quei risultati. E’ utopistico succeda nel basket di oggi? Forse, ma almeno il legame tra società, squadra e città, quello deve crearsi perché è da lì che nascono i risultati. Oggi come allora».
Enrico Pasini