Estate 1987, da una Forlì che aveva appena visto inaugurare il Palafiera parte un giovane lungo messosi in evidenza la stagione precedente in maglia Jolly Colombani. Si chiama Umberto Malcangi e lo vuole Cantù in massima serie. Lo vuole al punto da effettuare con la Libertas 1946 uno scambio che farà epoca: Malcangi per Antonio Sala, Corrado Fumagalli e soldi. Basteranno pochi mesi per capire che, a guadagnarci enormemente fu solo Forlì, perché Fumagalli diventerà subito “Corradino”, lo Speedy Gonzales del basket italiano, l’idolo di un’intera città. Non la sua per la quale aveva pur vinto una Coppa dei Campioni e un’Intercontinentale, ma quella che gli permetterà di togliersi immediatamente l’etichetta di semplice, per quanto adrenalinico, “cambio di Marzorati” e di vivere una interminabile carriera illuminato solo di abbagliante luce propria.

Insomma, alla vigilia di Cantù-Unieuro, il “suo derby”, la mente non può che correre all’affare della vita della pallacanestro di San Mercuriale, alla più grande vittoria che Forlì abbia mai ottenuto sui brianzoli. Non sul campo dove il bilancio è di 23-3 a favore di questi ultimi, ma a livello di mercato. «Aggiungo che con me l’affare la Libertas lo fece ben due volte e non una sola – sorride Corrado Fumagalli -. Non solo dallo scambio ricevette me e tanti soldi, ma poi, nel 1992, per portarmi alla Fortitudo, Giorgio Seragnoli pagò alla società 3 miliardi di lire. Era l’epoca dei “cartellini” e, in quegli anni, 3 miliardi erano davvero tanti».
Eccome se lo erano. Altri tempi, altro basket. Anche sul campo. Ora Cantù e Forlì si riaffrontano, per la prima volta dal 1997 e varrà tanto perché sono i play-off di A2. “Corradino” li vive con informazioni di prima mano direttamente da Cantù. Sì, perché «dopo avere vissuto ininterrottamente a Forlì da quando vi arrivai appena 21enne, continuando a giocare sino al 2019, due anni e mezzo fa ho deciso di tornare a casa e di vivere con i miei genitori: sono anziani, stanno bene, ma è giusto che pensi io a loro». Per questa ragione, basta che Fumagalli si mostri per le strade di Cantù e viene immediatamente circondato dai tifosi. «Nei bar e nei ristoranti ci sono ancora appese le mie foto – ammette – e mercoledì mattina al supermercato mi ha fermato uno dei capi della tifoseria per aggiornarmi sul mercato, dirmi che non sarebbe venuto nessuno tra Zerini, Udom o Visconti che erano stati accostati alla squadra (poi è arrivato Luca Vitali ndr.), e informarmi che con Forlì gli Eagles saranno presenti in forze, sia a Desio che in trasferta. Porteranno un po’ di incasso anche a Forlì. Spero che tanta gente vada a vedere queste partite».

Fumagalli compreso? «Ancora non lo so, forse no, preferirei vedere Cantù e Forlì che si sfidano in A, dove dovrebbero stare entrambe e dove lo spettacolo tecnico sarebbe ben altro. Onestamente a parte una gara di “vecchie glorie” cui ho partecipato a Treviso, non vado su un campo da basket da tanto tempo e non ci faccio troppo la voglia».
Il motivo è che la pallacanestro di oggi non è quella che Fumagalli ha profondamente amato. «La amo ancora, non avrei giocato, e vinto, a ogni livello sino a pochissimi anni fa se non fosse così. Da spettatore, però, lasciamo perdere: ora ai massimi livelli devi solo essere forte fisicamente, non esiste altro schema che non sia il pick and roll e poi… succeda quel che deve succedere. E poi dove sono finiti i ruoli? Esistono ancora i play? C’è più contropiede nel basket. No, non se ne vedono più e quindi, non fa per me. Se un coach si mette a zona, poi, puoi iniziare a darti le martellate lì…». Tornando alla sfida tra le sue due città, il pronostico va a Cantù che «è più forte sulla carta, ma non tanto da guadagnare la promozione: in una serie con Scafati col fattore campo per i campani, la vedo male». Nessuna chance per l’Unieuro? «Può e deve provarci, anche noi nel 1990 non eravamo certo i favoriti per la serie A».
Verissimo. E’ quella la sua maggiore soddisfazione in maglia biancorossa? «Sportivamente sì, ma non fatemi scegliere o fare elenchi perché tutto a Forlì è stato splendido – ammette -. Arrivai nel 1987 dovendo scegliere tra la Romagna e Trieste e scelsi Forlì anche perché vicina a Milano Marittima dove andavo tutte le estati sin da quando ero bambino. Fu amore a prima vista. Giocai immediatamente bene, la gente mi tenne su un palmo di mano e mi ambientai perfettamente un po’ per il carattere dei romagnoli, un po’ per come sono fatto io». Tanto amore reciproco, gli è stato persino perdonato (o quasi) il tatuaggio della “Effe” bolognese. Quasi… «Forlì è stata la mia fortuna, a Cantù avrei continuato a fare della panchina. Avevo 21 anni, l’entusiasmo alle stelle, ho dato tutto per la maglia forlivese. Credo di essermi guadagnato l’affetto che ho ricevuto. L’ho anche contraccambiato tutto, però. Ognuno ha dato qualcosa di importante all’altro».

E’, allora, il momento di darle quanto meno un augurio. «Se è quello di tornare in A, subito, perché deve tornarci – va dritto al punto -. Servono soldi, e tanti, ma vorrei vedere un palazzetto, uno dei più belli d’Italia anche adesso, finalmente pieno. Quel palazzetto che mi ha visto correre e fare per anni scatti per tutto l’anello superiore con il professor Giorgio Reggiani e, credetemi, quell’anello è lunghissimo: la fatica più grande di tutta la mia vita da atleta. Un palazzetto che, anche in una A da metà classifica, farebbe 4mila ogni sera. E chi li fa più, oggi?».
Enrico Pasini